Cozza tarantina PAT

Prodotto Agroalimentare Tradizionale della Puglia

Cozza gnure.

Il mitilo, chiamato comunemente cozza, è un mollusco bivalve dalla forma allungata dotato di una conchiglia di color nero-violaceo; le valve sono bombate, uguali, di forma quasi triangolare e presentano sottili striature concentriche. La specie comunemente oggetto di allevamento e , quindi, di attività zootecnica, è il Mytilus galloprovincialis che costituisce tipicamente il patrimonio dei mitili tarantini alternativo ad altre specie meno apprezzate sul mercato quali il Mytilus perna  o il Mytilus edulis (cozza spagnola). All’interno delle valve  il colore è viola-madreperlaceo e può variare in relazione al ciclo riproduttivo e al sesso.Il corpo del mitilo è molle, completamente rivestito dai lobi del mantello.

Macro close up of appetizing fresh Steamed sea mussels. Large blue mussels on dark plate

Dal guscio escono filamenti bruni assai robusti, chiamati bisso, mediante i quali l’animale si fissa alle rocce o ad altri substrati coerenti. Le valve si chiudono grazie ad una cerniera che è un legamento elastico, stretto, allungato, di colore brunastro. La cozza è un organismo  filtratore che si nutre di plancton e particelle organiche in sospensione la cui misura sia commensurabile con l’apparato filtratore. Il mitilo può raggiungere la lunghezza di 11 cm, ma di regola sui mercati lo si trova di 6 cm.

In particolare, la produzione tipica tarantina commercializza un prodotto finale ancora adeso alla resta di allevamento che viene così sezionata in porzioni per la commercializzazione. Tale aspetto influisce positivamente sulla vitalità del prodotto poiché esso mantiene la sua integrità anatomica e funzionale. Ciò non accade in altre realtà  ove il prodotto viene  sottoposto ad operazioni di “sgranatura” che, recidendo il “bisso”, compromettono la ermetica chiusura delle valve con perdita del liquido intervalvare e diminuendo la “shelf-life” degli organismi.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura

Il modello di vivaio utilizzato nei mari di Taranto verso la fine del XIII sec. ed ancora ampiamente diffuso, si organizza attraverso la ripetizione ennesima di un’unità di base che prende il nome di “camera”, realizzata con pali infissi nel fondo. La camera ha sempre forma quadrata, con i pali assemblati in numero di tre ai vertici del quadrato. Ogni camera è delimitata lateralmente ed attraversata in diagonale da funi (ventìe), che un tempo erano realizzate in fibra di cocco e che oggi sono in parte sostituite da fibre artificiali.

Negli ultimi decenni, ai tradizionali vivai su pali sopradescritti si sono affiancati colorati galleggianti in polietilene, cosiddetti “long lines” di superficie, che rappresentano una  variante moderna al sistema di allevamento mediante palificazioni. Il long line presenta alcuni  vantaggi: è più agevole da montare ed è altrettanto facilmente rimovibile, ma la caratteristica più interessante sotto il profilo produttivo è che, trattandosi di una struttura più aperta consente una migliore circolazione delle acque, determinando migliori condizioni di crescita per i mitili e spesso caratteristiche merceologiche più elevate.

Un momento tipico del processo produttivo  della mitilicoltura tarantina è la “sciorinatura” con cui i mitili, esposti all’aria in emersione su appositi stenditoi, vengono liberati da organismi incrostanti le valve (epizoi), acquistando peculiari qualità che ne aumentano il valore merceologico.

Tradizione vuole che ai primi di novembre vengano disposti all’interno dei vivai i “letti per la raccolta del seme” costituiti da cime  sospese in prossimità della superficie, a cui aderiranno spontaneamente le larve planctoniche captate durante il periodo delle emissioni gonadiche, ( i sessi sono separati)  che si prolunga sino ad aprile.

Successivamente, dopo la prima raccolta dei mitili di qualche millimetro, lasciati adesi ai collettori del seme per il primo accrescimento,  si procede all’operazione di innesto dei giovani mitili in retine di nylon a maglia stretta a mò di calza. I mitili così accolti, all’interno della “calza” si disporranno autonomamente, seguendo un meccanismo di reotassi positiva, secondo la massima esposizione delle valve alla corrente marina dominante, portandosi, (ancorati al bisso)  verso l’esterno della retina in nylon, che, alla fine, fungerà da semplice ancoraggio e non già da contenitore. Seguono generalmente altri due reinnesti in calze con maglia crescente, per consentire una maggiore crescita regolare ed uniforme. Al fine  di garantire sempre tali caratteristiche si procederà periodicamente, inoltre, alla inversione delle reste riappendendole capovolte onde evitare accrescimenti differenziali tra i mitili disposti in superficie e quelli in profondità.

Il prodotto, concluso il ciclo di crescita, viene avviato alla commercializzazione presso un centro di spedizione che provvederà al confezionamento ed alla etichettatura. Eventualmente sempre presso il centro autorizzato verranno condotte operazioni di sgranatura dei singoli mitili  e confezionamento in sacchetti etichettati secondo le norme. In tutti i casi, verrà avviato alla commercializzazione il prodotto conforme alla normativa igienico sanitaria D.l. 530/92.

Il prodotto non conforme ai parametri microbiologici viene comunque avviato ad una fase di stabulazione per effettuare la “depurazione” dei mitili con acqua tecnicamente condizionata per poi essere commercializzato.

Elementi che comprovino che le metodiche siano state praticate in maniera omogenea e secondo regole tradizionali per un periodo non inferiore ai 25 anni

È assai arduo stabilire con certezza la data di nascita della mitilicoltura a Taranto, giacché rari sono i documenti che ne parlano. Molti di coloro che, interessati all’argomento, hanno voluto datare l’origine dell’attività gia al tempo dei Romani, hanno portato avanti affermazioni di principio non sempre giustificabili.

Già l’Atenisio Carducci, commentatore del Poema del D’Aquino, escludeva la possibilità di una tale origine in quanto i latini, da Virgilio ad Orazio, Plinio, Stazio, Strabone ecc…, puntigliosi descrittori delle amenità dei nostri luoghi e dei nostri prodotti, non hanno mai fatto un solo cenno alla cosa. Inoltre, nei documenti disponibili, risalenti fino all’alto Medioevo, quali pergamene, diplomi, atti notarili, si parla spesso di peschiere del Mar Piccolo, di gabelle, decime e di imposte sui prodotti della pesca, ma non vi è traccia riferibile a mitili ed ostriche.

L’ipotesi più probabile è che l’allevamento delle cozze a Taranto risalga al XVI Secolo, rappresentando già da allora un’importante fonte di reddito per l’economia locale.

Nel XVI e nel XVII Secolo infatti, lo storico Giovine e il poeta Giannettasio citano attività di allevamento riguardante la mitilicoltura. Nel “Deliciae Tarantinae” di Tommaso D’Aquino viene spiegato che le cozze prelevate dai pali quando avevano la grandezza di un mandorla, si andavano a seminare lungo il Ponte di Napoli, dove si mescolavano le correnti, e nel Citrello, dove l’apporto di acqua dolce del Galeso e le polle dei Citri ingrassavano e davano un particolare sapore ai mitili. Questi venivano lasciati fino all’equinozio d’inverno e raccolti con uno strumento chiamato “Granfa”.

Una fonte autorevole di quanto fin qui esposto, è il Libro Rosso dei Principi di Taranto del XV Secolo, che così recita: “La Chioma[1] era difesa da una palificazione”. Ma già l’imperatrice Costanza, poco dopo il Mille donò “Le Piscarie” ad alcuni ordini monastici ed esse erano delimitate proprio da pali di legno. Quindi dovremmo pensare che i nostri pescatori, che avevano osservato l’attecchimento dei mitili sui pali delle Piscarie, avevano, col tempo, avuto l’idea di ricollocare dei pali che fungessero da collettori di mitili, da raccogliere e poi trasferire nelle zone più adatte alla loro ulteriore crescita.

Tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, si assiste ad un’evoluzione nelle tecniche di produzione mirante ad incrementarne l’efficienza e facilitare, nel contempo, le operazioni di cattura: dalla raccolta del seme sui pali posti a delimitare le aree di pesca date in concessione (peschiere) e la successiva dispersione su fondali limitati e con caratteristiche particolarmente idonee al suo accrescimento, all’incremento del numero dei pali di raccolta, all’aumento della superficie di captazione (collettori) operato con funi vegetali avvolte attorno agli stessi (zoche), all’uso di ventie disposte orizzontalmente e tese tra i pali, sino alla graduale organizzazione del complesso modulo di captazione del novellame e di ingrasso che prende il nome (per la forma che lo caratterizza) di quadro.

È molto probabile, dunque, che già nel primo decennio dell’800 la mitilicoltura tarantina possedesse il medesimo tipo di organizzazione produttiva che riscontriamo (ed ammiriamo!…) oggi: le aree marine “sfruttate” si trovavano solo nel Mar Piccolo, i pali erano in legno di castagno e le reste in fibra vegetale, ma era pienamente operante l’allevamento in sospensione.

Il fatto che le uniche aree di produzione si trovassero nel Mar Piccolo ed, in particolare, a ridosso del versante nord in prossimità dei citri di acqua dolce e del principale (allora…) collegamento con il Mar Grande, garantiva ai mitili ivi allevati, rapidi accrescimenti ed elevate caratteristiche organolettiche. Tale situazione, con alterne e complicatissime vicende, si è protratta sino alla metà del secolo scorso, consentendo produzioni oscillanti attorno ai 30.000 ql. annui. Il picco di 60.000 ql fu raggiunto con la gestione CO.MI.OS. nell’esercizio 1946-47.

Lo stesso Mar Piccolo aveva raggiunto tale importanza da essere considerato il Centro Italiano per la produzione dei molluschi.

Con l’avvento dell’Unità d’Italia, intorno al 1860, la molluschicoltura, con una redditività se non proprio di alto grado, era per lo meno sufficiente a collocarsi come la maggior voce nell’economia di una popolazione di circa 29.000 abitanti, quali erano i cittadini di Taranto nel 1860 (Conte 1860, De Vincentiis 1898), di cui 19.250 erano coloro che lavoravano nel settore della pesca e della molluschicoltura.

Contestualmente all’evoluzione dei moduli e delle tecniche di produzione, si verificò un’egualmente importante evoluzione nella definizione dei criteri costruttivi del mezzo nautico destinato a questa specifica attività. La barca dei mitilicoltori tarantini non è, infatti, un mero mezzo di trasporto per persone e cose, ma rappresenta il vero ambiente di lavoro per gli addetti al settore: ogni dettaglio costruttivo è stato studiato ed affinato nel corso del tempo per permettere la massima razionalizzazione dell’attività colturale. A partire dalla tradizionale barca per la piccola pesca, si è infatti realizzato nel tempo uno strumento assolutamente originale: un’imbarcazione tutta squilibrata a poppa, verso il pozzetto, con il pianale di carico (‘a sanola) spostato posteriormente e la stiva (‘a ‘nghiea), utilizzata di rado come tale, essendo destinata più che altro ad ospitare il caposquadra, addetto alla sistemazione ed alla pulizia dei pergolari nonché alla direzione del lavoro nei vivai.

Il particolare assetto non è affatto finalizzato alla navigazione, nè ciò sarebbe utile, ma è in perfetta armonia con la funzione per la quale l’imbarcazione è stata pensata: il pozzetto di poppa deve essere basso in modo da permettere all’operatore ausiliario di raggiungere con relativa comodità le ventìe ed i pergolari; lo stesso spostamento della barca all’interno dei vivai è più agevole se chi manovra e vicino alla superficie del mare. Durante la navigazione a remi, a barca carica ma al di fuori dei vivai, poi, la posizione del vogatore, in considerazione del fatto che tutti gli altri spazi sono occupati o da uno degli operai o dal prodotto raccolto, è a prua, con l’unico remo usato alla maniera dei gondolieri veneziani. Da quanto detto risulta un’altra particolarissima caratteristica: si tratta del solo natante al mondo che, carico, procede di poppa anziché di prua (a meno che non venga trascinato da un’altra imbarcazione…).

Abbiamo visto come, nel tempo, si sia realizzata a Taranto una mirabile organizzazione dell’attività mitilicolturale, che ha portato all’ottenimento di un prodotto dalle elevatissime caratteristiche merceologiche, ovunque apprezzatissimo. Le esperienze acquisite nel più piccolo dei bacini della Città Bimare, sono state inoltre, secondo la tradizione locale, trasferite in altri siti, anche remoti, poi divenuti sede di importanti allevamenti di mitili[5]

Va comunque sottolineato il fatto che la particolare idrologia delle acque tarantine ha da sé favorito la nascita della molluschicoltura a causa della bassa salinità delle acque stesse. Infatti, la presenza delle sorgenti sottomarine ha permesso ai mitili (insieme spesso con le ostriche) un accrescimento più  rapido con valori di salinità oscillanti intorno al 33-34 per mille. Tale aspetto è per  i molluschi di decisiva importanza in quanto permette un notevole risparmio energetico metabolico poiché è minore il “lavoro osmotico” da compiere a tutto vantaggio della crescita somatica e delle qualità organolettiche. Tale idrologia del Mar Piccolo e del Mar Grande, peraltro ha favorito la crescita di specie fitoplanctoniche particolarmente idonee all’alimentazione dei molluschi non facendo mai registrare la presenza di alghe tossiche peraltro presenti in altri mari (vedi adriatico settentrionale). Tale peculiarità rappresenta a tutt’oggi una notevole garanzia sanitaria che esclude la presenza di tossine fitoplanctoniche nel prodotto locale.

Territorio

Provincia di Taranto

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