Pizza di Pasqua della Tuscia (dolce e al formaggio) PAT Lazio

Prodotto Agroalimentare Tradizionale del LAZIO

La Pizza di Pasqua è un dolce tradizionale della gastronomia viterbese legato alle festività pasquali. Nell’aspetto è molto simile al panettone, ma con un cappello a forma di fungo. Attualmente viene prodotta in due diverse tipologie, “dolce” e “al formaggio”. Quest’ultima si diferenzia dalla prima perché fra gli ingredienti viene aggiunto il formaggio pecorino, che conferisce un sapore di torta salata.

METODO DI PRODUZIONE

Il processo di produzione della Pizza di Pasqua della Tuscia inizia con l’allestimento, in tre fasi differenti, del lievito naturale. Il I lievito naturale è a base di farina, acqua e lievito, amalgamato nell’impastatrice; il II lievito è a base del I lievito più farina, zucchero e strutto. Segue una fase di lievitazione di 1 ora in cella alla temperatura di circa 50°C. Il III lievito è a base del II lievito con aggiunta di alcuni aromi o altri ingredienti: cannella, liquori per il tipo dolce; formaggio pecorino per il tipo al formaggio. Dopo una lievitazione di 10 ore si procede alla ripartizione negli appositi stampi di circa 1 kg d’impasto posto a lievitare in cella per circa 3 ore a temperatura di circa 50°C. La cottura avviene in forno alla temperatura di 200°C per 1 ora.

CENNI STORICI

La pizza di Pasqua della Tuscia si potrebbe ricollegare a quei “pani rituali” di cui parla Camporesi, studioso delle tradizioni popolari, frutto dell’ingegno delle massaie che, alla ricetta tradizionale del pane, hanno aggiunto, in occasione di feste speciali, ingredienti dolcificanti. Bisogna tener presente, inoltre, che in dolci tradizionali di questo tipo, legati a ricorrenze religiose, forse non è casuale il riferimento, nella forma, al pane, alimento considerato sacro, terreno e spirituale insieme. La preparazione della Pizza di Pasqua è sempre legata ad una festività che nel passato rappresentava l’unica occasione per mangiare più abbondantemente e, soprattutto, per gustare piatti più elaborati e costosi. A questo aspetto si deve aggiungere un particolare valore simbolico e rituale. Il sabato prima di Pasqua, infatti, dopo lo scioglimento delle campane, queste pizze erano benedette dal sacerdote, insieme con le uova sode colorate. Il tutto veniva poi consumato con la famiglia riunita nella colazione del giorno di Pasqua. Con il nuovo rituale liturgico, che non prevede più la benedizione delle Pizze di Pasqua, questo dolce perde parte del proprio valore simbolico. Le fasi di preparazione di questa specialità della cucina della Tuscia, frutto nei tempi passati della snervante maratona pasquale delle donne di casa, è ricostruito dall’esperto di tradizioni gastronomiche viterbesi, Italo Arieti, grazie ai ricordi della nonna e di sua madre Ilde. “I preparativi rituali”, racconta, “iniziavano il Giovedì Santo, dopo aver pulito la casa per le festività. Alla fatica materiale, necessaria per impastare per ore ed ore 4, 6 o anche 8 Kg di farina, con varie dozzine di uova ed altri ingredienti, andava aggiunta l’ansia per l’incertezza del risultato, poiché le complesse fasi del lavoro, che si concludevano con la lievitazione, dovevano terminare nell’ora precisa dell’appuntamento con la fornaia. Quando questa lievitazione ritardava, tutta la famiglia entrava in crisi e si escogitavano i mezzi più vari per accelerare questo processo, inserendo dentro o sotto la madia, secondo le necessità, i lumini ad olio, le pentole di acqua calda, gli scaldaletti con la brace. Questa fatica durava due giorni. Poi, l’attesa del ritorno dal forno. Le pizze arrivavano alte, lucenti, a riempire le case con il loro profumo caratteristico. Il sabato il parroco impartiva a pizze e uova la rituale benedizione. Erano inzuppate nel vino insieme alla lonza, alle uova sode e alla caratteristica coratella di abbacchio nella tradizionale colazione pasquale al ritorno dalla S. Messa”. Ogni famiglia custodisce gelosamente la sua ricetta tradizionale che si differenzia dalle altre per piccole variazioni relative al dosaggio dei vari ingredienti e che, un tempo, faceva parte del patrimonio ereditario che le madri trasmettevano in dote alle loro figlie, insieme ad una batteria di luccicanti tegami di rame stagnato che, appesi in cucina, facevano bella mostra di sé.

Territorio di produzione

Provincia di Viterbo


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