ECOSISTEMI TERRESTRI ITALIANI

LE ACQUE INTERNE

Quando si parla di “acque interne” ci si riferisce ai fiumi, ai laghi e alla porzione di mare interna alla linea di base, cioè alla linea di bassa marea della costa.

Convenzionalmente, nel caso in cui contengano meno di 500 parti per milione (ppm) di sali disciolti, le acque si definiscono “dolci”. Rientrano nella definizione anche le acque dolci stagnanti e le acque di transizione salmastre come le lagune, gli stagni costieri, i delta e gli estuari. Il fatto che gli ambienti siano così diversi determina una forte variabilità delle loro caratteristiche: la salinità per esempio passa da valori prossimi allo zero (acque di scioglimento dei ghiacciai, ruscelli, torrenti e laghi d’alta quota) a valori prossimi o uguali a quelli dell’acqua di mare (acque di transizione), o a volte a valori anche superiori (stagni salati, saline).

In un quadro generale di alterazione dell’ambiente dovuto alla crescente antropizzazione, all’uso non sostenibile delle acque, all’introduzione e all’acclimatamento di specie aliene, ai cambiamenti climatici, si è assistito ad un’erosione progressiva della biodiversità originaria delle acque interne. Secondo il Rapporto ISPRA sulle sinergie tra le direttive Acque, Habitat e Uccelli, questi ambienti comprendono in Italia oltre 40 habitat di interesse comunitario dai quali dipendono, con modalità diverse, 24 specie di piante vascolari, 16 specie di invertebrati, 4 specie di agnati, 20 specie di pesci ossei, 29 di anfibi, 3 di rettili e 10 di mammiferi oltre a quasi 60 specie di uccelli, tutte di interesse comunitario. Anche gli endemismi, cioè le specie che vivono esclusivamente in un determinato luogo, nelle acque interne italiane sono numerosi e hanno bisogno di essere tutelati con grande attenzione. 

AMBIENTI MONTANI

Secondo le convenzioni europee la montagna, rilievo della superficie terrestre che si estende sopra il terreno circostante in un’area limitata, deve avere un’altezza di almeno 600 metri sul livello del mare ed il suo aspetto deve essere almeno parzialmente impervio. Nonostante l’Italia sia conosciuta e apprezzata soprattutto per le sue coste, che la collocano in un contesto mediterraneo, il territorio del nostro paese ha una forte componente montuosa. Buona parte della superficie totale protetta in Italia ricade in aree nelle quali almeno il 50% del territorio risulta essere in ambiente montano. A causa delle rapide variazioni nelle condizioni ambientali che si generano lungo i versanti, questi sistemi ospitano popolamenti animali e vegetali ricchi di specie. Sia le Alpi che gli Appennini hanno spesso funzionato, in occasione dei grandi cambiamenti climatici del passato, da centri di rifugio; vere e proprie oasi nelle quali alcune specie hanno trovato ricovero e, in conseguenza dell’isolamento, hanno intrapreso cammini evolutivi culminati non di rado nella nascita di specie endemiche limitate ad aree anche molto ristrette. 

Gli ambienti montani italiani non soltanto rappresentano un importante serbatoio di specie animali e vegetali, ma custodiscono un tesoro fatto di diversità etniche, di tradizioni antiche e di pratiche di gestione originali ed efficaci. Sono ambienti nei quali le condizioni di vita non sono facili, ma nei quali le genti di montagna hanno acquisito usi ed abitudini in qualche modo “esclusive”.

Sono ambienti che un tempo apparivano come una barriera da superare, ma che oggi sono visti come una risorsa in cui il cittadino può acquisire o riscoprire valori e conoscenze non trascurabili nella quotidianità. Attualmente i maggiori rischi per i sistemi montani sono l’evoluzione del clima, la degradazione degli habitat, l’abbandono delle pratiche agro-silvo-pastorali e la pressione antropica concentrata in limitati periodi dell’anno.

Questi fattori possono avere un impatto negativo anche sui beni e servizi che la montagna è in grado di produrre: acqua, energia, legname, turismo sostenibile, solo per citarne alcuni.

Castelluccio

AMBIENTI COSTIERI

Lungo gli 8000 Km di coste italiane si sviluppano interessanti ambienti di contatto fra il mare e la terra in particolare le lagune costiere dell’alto Adriatico, della Maremma, della Sardegna, della Sicilia e della Puglia, le foci a delta, fra cui di importanza internazionale per l’avifauna è quella del Po, e i sistemi dunali che sebbene aggrediti dallo sviluppo urbanistico ancora sono ben preservati in alcune aree protette. Fra le zone umide costiere si segnalano le saline.

Sono ambienti artificiali costruiti dall’uomo per raccogliere il sale facendo evaporare l’acqua del mare; il loro mantenimento richiede molto lavoro, che solo in parte può essere fatto dalle macchine. Sebbene siano completamente artificiali, le saline sono diventati luoghi ideali per la nidificazione degli uccelli. Due rare specie di gabbiani, il corallino e il roseo, hanno ad esempio deciso di deporre le uova sull’argine che divide due vasche nell’impianto di Margherita di Savoia, che si estende per quasi 5000 ettari lungo la costa adriatica ed è diventato una delle zone umide più importanti del Mediterraneo.

Saline di Margherita di Savoia – Puglia

Oltre ai gabbiani frequentano le saline il piovanello pancianera, il piovanello comune, la pettegola, l’avocetta, il cavaliere d’Italia e molti altri uccelli di ripa. Questi ambienti hanno corso il rischio di scomparire per sempre quando negli anni ’70 lo Stato decise di rinunciare al monopolio dell’estrazione e della commercializzazione del sale e smise di interessarsi della produzione nazionale; non più curati, gli argini iniziarono a franare e le vasche si trasformarono in distese di fango. Ma negli ultimi tempi si è verificato quello che potrebbe essere definito un miracolo: gli impianti italiani sono tornati a produrre e la grande avventura è ripartita, anche questa volta in compagnia di migliaia di coppie di uccelli. Tarquina, Trapani, Sant’Antioco, Comacchio: le saline sono diventate riserve naturali, veri e propri paradisi della biodiversità, sui quali vigilano il Corpo Forestale dello Stato e il WWF.

AMBIENTI IPOGEI

Le grotte: un ambiente estraneo alla nostra vita di tutti i giorni, ma di cui l’Italia è ricchissima. Ad un occhio disattento, o al visitatore di una grotta turistica, questo mondo di pietra e acqua può sembrare del tutto inospitale per qualsiasi essere vivente, ma in realtà quegli ambienti dove è padrona la più assoluta oscurità sono ricchi di forme di vita variamente adattate al buio. Senza addentrarsi in complesse distinzioni gli abitatori delle grotte si possono dividere in tre categorie:

  • troglosseni che solo casualmente si ritrovano nelle grotte (tassi, volpi, istrici);
  • troglofili che mostrano vari gradi di adattamento alla vita sotterranea (pipistrelli, geotritoni, alcuni ortotteri) e possono trascorrere periodi più o meno lunghi della loro vita nelle grotte;
  • infine i troglobi (ad esempio coleotteri di varie famiglie) presentano il più alto grado di adattamento alla vita nelle grotte dove compiono tutto il loro ciclo vitale. Le principali caratteristiche dei troglobi sono la depigmentazione, la perdita degli occhi, la cui funzione sensoriale è sostituita da arti, antenne e peli tattili enormemente sviluppati che permettono loro di muoversi e cacciare nell’oscurità.

Ma cosa mangiano gli organismi delle caverne? Se si eccettuano le grotte completamente isolate dall’esterno, dove le catene trofiche sono esclusivamente basate su batteri autotrofi specializzati, in grado di ossidare sostanze minerali con produzione di materia organica, le catene alimentari delle grotte dipendono dall’apporto di sostanza organica dall’esterno. Una risorsa alimentare di primaria importanza nelle grotte è il guano dei pipistrelli, che è sfruttato da tutta una serie di organismi come lombrichi, larve di ditteri o di lepidotteri: queste larve vengono a loro volta predate da coleotteri stafilinidi, isteridi o dai duvalius (D. bensai lombardii endemico di alcune grotte marchigiane) piccoli carabidi troglobi di cui in Italia esistono decine di specie.

Infine anche i resti dei geotritoni, delle dolicopode, dei pipistrelli o di altri animali che muoiono nelle grotte non vanno di certo sprecati e sono prontamente utilizzati da altri organismi che si nutrono di cadaveri. Si è molto dibattuto sull’origine dei troglobi: in passato si pensava che si trattasse di organismi molto antichi, quasi dei fossili viventi, che avevano trovato rifugio nelle grotte, ma le più recenti teorie considerano le grotte come uno dei tanti habitat presenti sulla terra, dove alcuni organismi possono trovare una loro nicchia ecologica.

Le grotte – e gli organismi che ci vivono – sono particolarmente vulnerabili e nonostante questi ambienti siano tutelati dalla Direttiva Habitat le minacce alla loro integrità sono molteplici. Basti pensare alle continue proposte di apertura di nuove grotte turistiche, interventi spesso realizzati senza le attenzioni necessarie per la salvaguardia di tali delicatissimi habitat;

oppure si pensi all’inquinamento delle grotte, che può avere dirette ripercussioni su di noi: infatti, pochi sanno che nel nostro paese oltre il 40% dell’acqua potabile che utilizziamo proviene da acquiferi carsici. Ma senza voler sempre cercare una ragione economica per la protezione di un ambiente, basta citare la frase “l’emozione e la meraviglia che si provano entrando in una grotta, ascoltando il rumore delle acque e osservando le strane creature bianche e cieche che si muovono nell’oscurità bastano da sole per giustificare la necessità di tutela”.

FORESTE D’EUROPA E D’ITALIA

Nell’Unione Europea le foreste coprono circa 1.000 milioni di ettari (pari a circa il 44% del territorio europeo ed al 24% di quello planetario), con un massimo in Finlandia (74%) e un minimo a Malta ( 1,1%).

In Italia la superficie dei boschi continua ad aumentare, come riporta l’inventario nazionale redatto dal Corpo Forestale dello Stato. In Italia, nel 1940 solo il 20 % del Paese era coperto dai boschi, mentre oggi pinete e faggete, quercete e abetine rivestono più del 30 % della penisola. All’incremento della superficie boschiva, anch’esso frutto della diminuzione della pressione antropica negli ambienti montani, non fa riscontro tuttavia un miglioramento qualitativo delle foreste che restano il più delle volte cedui pesantemente alterati dai tagli del passato. In Italia vi sono circa 12 miliardi di alberi. L’albero più diffuso in Italia è il faggio, con più di 1 miliardo di esemplari.

Faggio

I BOSCHI DECIDUI

Dopo un periodo di tregua, venuto a coincidere con il massiccio spopolamento delle aree montane e collinari e l’evoluzione di sistemi di riscaldamento a combustibili fossili, in questi ultimi anni è ripreso in tutta Italia il taglio dei boschi, soprattutto dei cedui. Da queste formazioni forestali – querceti, leccete, carpinete, faggete – si ricava soprattutto legna da ardere destinata ad alimentare i forni di trattorie e pizzerie e i camini e le stufe delle seconde case. Solo in limitate aree montane la legna rappresenta ancora il combustibile principale per gli usi domestici delle popolazioni residenti. Il prezzo sul mercato del dettaglio oscilla fra i 5 euro e i 20 euro al quintale. Il taglio rende al proprietario del bosco una cifra variabile, senza alcun onere da parte sua se non quello di recintare la tagliata per precludere l’accesso del bestiame da lui eventualmente posseduto. Nel caso delle aziende di notevole estensione boschiva il taglio può rappresentare una risorsa economica non trascurabile, anche se i turni sono stati poco a poco allungati e il taglio è possibile ormai ogni dieci, quindici, diciotto o più anni in relazione alle essenze arboree dominanti.

La ceduazione intensiva comporta il più delle volte non solo la periodica e sistematica eliminazione dello strato arboreo più maturo (superstiti poche ed esili “guide” ai limiti dei valori indicati dalle normative in materia forestale) ma anche la comparsa di piste di esbosco che accelerano i fenomeni di erosione consentono un facile accesso di bracconieri e cacciatori anche in zone prima remote e infieriscono gravi danni ai paesaggi montani. L’utilizzazione del bosco è un tipico esempio di sfruttamento parziale ed eccessivo di una risorsa naturale, mirato all’acquisizione immediata di un bene scarsamente remunerativo (legna da ardere o da opera di scarsa qualità). Solo in limitati casi è sostituito da una selvicoltura più ricca e razionale che mira a diversificare l’utilizzazione degli alberi, per ricavare anche legname da costruzione e altri prodotti spontanei. E’ tale il caso delle fustaie rappresentate il più delle volte da faggete pure anche notevolmente vetuste. Dal punto di vista ecologico si tratta di ambienti estremamente omogenei, con bassa diversità biotica, ma con grande valore estetico e paesaggistico e fondamentale utilità per la regimazione delle acque e per l’equilibrio idrogeologico. I tagli forestali possono recare gravissimi danni a queste formazioni nelle quali devono essere tutelati gli alberi morti e deperienti che forniscono nicchie trofiche e spaziali a molte specie animali.

Il bosco ceduo è una formazione forestale che viene periodicamente tagliata dall’uomo e i cui alberi hanno la capacità di ricrescere dai ceppi tagliati, emettendo dei polloni. Tradizionalmente il bosco ceduo si compone di alberi governati a taglio e di matricine che possiedono una funzione principalmente propagativa.

Le tecniche di gestione forestale hanno oggi assunto uno sviluppo notevole tanto che è possibile conciliare il binomio sfruttamento e conservazione, a patto di misurare il bosco non in metri cubi o quintali di legna ma in risorsa multipla per il legname, la selvaggina, i frutti spontanei, i funghi, per la regimazione dei cicli idrogeologici, e per offrire spazi salubri alla ricreazione dell’uomo. Lo stesso ceduo ha motivo di esistere perchè rappresenta un sistema razionale di sfruttamento del legname e nello stesso tempo consente di mantenere gli ambienti boschivi in una fase giovanile, fondamentale per la conservazione di molte specie vegetali e animali che non troverebbero spazio in fustaie mature.

LE FORESTE ALPINE

Negli ultimi decenni ha incominciato a prendere piede la selvicoltura naturalistica, più ricca e razionale, che mira a diversificare l’utilizzazione degli alberi, per ricavare anche legname da costruzione e altri prodotti spontanei, ma soprattutto per mantenere e incrementare il patrimonio di diversità biotica sinonimo di stabilità dell’ecosistema. Fatte salve poche eccezioni, le fustaie alpine sono rappresentate da formazioni di conifere pure o miste e in pochi casi da formazioni  di latifoglie, il più delle volte faggete pure anche notevolmente vetuste. Dal punto di vista ecologico si tratta di ambienti estremamente omogenei, con bassa diversità biotica, ma di grande valore estetico e paesaggistico e fondamentale utilità per la regimazione delle acque e per l’equilibrio idrogeologico.

Le tecniche di taglio maggiormente in uso sono:

  • Taglio a raso: alla scadenza del turno si procede ad un unico taglio di tutti gli alberi maturi in una particella forestale per cui si riformerà, nell’intervallo successivo (“turno”), una foresta coetanea;
  • Taglio successivo: taglio realizzato in due o più fasi in modo da facilitare la rinnovazione naturale per dare vita ad una vegetazione forestale disetanea, con alberi di almeno due turni sovrapposti;
  • Taglio saltuario o a scelta: i tagli e la rinnovazione avvengono in maniera continua all’interno dell’appezzamento con la sviluppo di una foresta disetanea a rinnovazione continua.

Lo sfruttamento intensivo dei boschi, attraverso una ceduazione sistematica o attraverso un taglio a raso, ha delle conseguenze negative di vasta portata sull’ecosistema forestale in tutte le sue componenti, abiotiche, botaniche e zoologiche che possono essere così sintetizzate:

  • carenza di sostanza organica in decomposizione al suolo. La carenza di necromassa al suolo si traduce nel ridotto numero di specie e di individui di organismi decompositori. Mancano di conseguenza le potenzialità per lo sviluppo di catene alimentari ad essi collegate: in particolare sono carenti la pedofauna ipogea ed epigea che non possono dar luogo in modo efficiente al processo di formazione di humus e non possono offrire risorse alimentari ad alcuni animali nelle fasi critiche del ciclo vitale (ad esempio le covate di tetraonidi)
  • carenza di piante deperienti, morte o seccaginose in piedi. Dal punto di vista trofico questa carenza si traduce in una minore disponibilità di cibo per gli uccelli insettivori (manca infatti la fauna lignicola e corticicola, xilofaga in generale) e in una minore disponibilità di siti di nidificazione per uccelli che nidificano in cavità.
  • omogeneità delle piante in relazione alle loro caratteristiche fisiche e morfologiche per la selezione attuata al fine di favorire la produttività legnosa del bosco. Tale fatto si traduce in una diminuzione netta delle nicchie trofiche e spaziali per la fauna.

GLI INCENDI BOSCHIVI

Le perdite causate dagli incendi sono gravi e a volte irreversibili.

Il più delle volte la natura richiede tanto di quel tempo per riformare un manto vegetale di una certa maturità e complessità che di fatto nel normale volgere della vita di un uomo quello che gli occhi di un bambino hanno visto andare in fiamme difficilmente lo potranno vedere tornato al primitivo splendore una volta divenuti gli occhi di un anziano. Ciò è particolarmente valido nel caso delle formazioni di conifere, piante che muoiono anche se toccate dal fuoco in modo superficiale. Basta un fuoco di paglie alla base di pini secolari per decretarne la morte: avviene questa nel giro di una o più stagioni, spesso la pianta sembra dar prova di vigore e di aver superato l’insulto delle fiamme ma prima o poi la chioma comincerà a ingiallire e l’albero sarà morto. La corteccia, impregnata di resine e di sostanze altamente infiammabili, non garantisce più protezione al tronco duro, solido ma pur sempre fragile.

Le grandi pinete di pino d’Aleppo delle pendici del Gargano (foto C. Romano) andate in fiamme negli ultimi anni difficilmente torneranno così come le abbiamo viste nel passato. Occorrerebbe un’opera di rimboschimento caparbia e lungimirante, quale è difficile realizzare oggi, e si dovrebbe combattere contro la natura stessa che vorrà un mantello di macchia mediterranea al posto dei pini che per tanto tempo con la loro ombra le hanno negato spazio. La successione vegetale che si instaura nei terreni percorsi dalle fiamme tende infatti a sostituire l’ammasso di tronchi anneriti e privi di vita dapprima con uno strato erbaceo di piante pioniere e tenaci, poi con una fascia di arbusti invadenti e adattabili, dalla ginestra al rovo, poi via via con una vegetazione più complessa di sclerofite, le piante sempreverdi e dalle foglie coriacee, amanti del sole e tolleranti della siccità che costituiscono la vegetazione più importante delle coste mediterranee rocciose e dardeggiate dal sole come quelle del Gargano esposte al mare. Queste piante sono presenti in piccolo numero e in condizioni precarie anche in una lecceta e in una pineta ombrose e aspettano solo un evento improvviso e per loro provvido, come il fuoco per farsi largo e sopraffare gli alberi caduti per le fiamme. Dalla loro base ben presto spuntano vigorosi polloni in grado di ripristinare in tre o quattro anni una macchia mediterranea compatta e alta alcuni metri che nel suo grembo comincerà ad allevare qualche leccio, qualche pino che poco poco, con grande fatica comincerà a liberarsi dall’abbraccio soffocante delle filliree e dei mirti.

Un incendio comporta un regresso a condizioni embrionali della vegetazione dell’area e per sperare che il neonato possa crescere sano e robusto come il suo genitore prima delle fiamme bisogna che ci siano delle condizioni che oggi non sempre sono assicurate. Ad esempio la capacità di piante e animali di colonizzare i terreni percorsi dalle fiamme. In un territorio sempre più parcellizzato, segmentato da strade e infrastrutture non è detto che semi, propaguli vegetali e organismi animali siano in grado di raggiungere la zona incendiata per iniziare la ricostruzione di una biocenosi complessa.

Un bosco incendiato potrebbe non tornare più come era prima come suggerisce il concetto ecologico della omeorresi. Questa teoria, in opposizione a quella dell’omeostasi cioè della tendenza dei sistemi a tornare alle condizioni iniziali di equilibrio in assenza di fattori di disturbo, sostiene che un ecosistema perturbato entrerà in un flusso di cambiamenti che lo porteranno a una nuova condizione di equilibrio diversa da quella precedente al fenomeno perturbativo.

Nel caso di un incendio di un bosco è evidente che il bosco tornerà ad essere bosco, ma sarà sicuramente diverso dal bosco originario e probabilmente peggiore dal punto di vista naturalistico almeno dal punto di vista della ricchezza di specie come testuggini di terra, serpenti e mammiferi terricoli che non avranno più la possibilità di raggiungerlo e di insediarvisi.

PICCOLE, GRANDI STEPPE ITALIANE

Gli ecosistemi erbacei sono in parte artificiali, frutto della coltivazione di cereali e altre piante erbacee, in parte seminaturali quando sono gestiti prevalentemente per il taglio del fieno o il pascolo del bestiame, in parte naturali come i prati di alta montagna sopra il limite di sviluppo della vegetazione arborea. Alla categoria delle formazioni seminaturali possono essere ascritti i prati aridi o pseudosteppe mediterranee

Sembrerebbe quasi inappropriato parlare di steppe in un paese prevalentemente montuoso e per di più densamente popolato come l’Italia. Le steppe, infatti, evocano immagini di pianure sconfinate, insolite per i nostri paesaggi. Ma nel Mezzogiorno esistono alcuni prati aridi che, essendo ostili a qualsiasi forma di sfruttamento che non sia il pascolo delle pecore, hanno conservato il fascino delle praterie americane, delle savane africane o delle steppe asiatiche. Non hanno mai conosciuto l’aratro e sono il pascolo di pecore lanose e prodighe di latte, di vacche brune e frugali, di cavalli e di asini liberi e imprendibili, perfino di maiali che grufolano nella polvere. 

In queste zone piove molto poco; fra 600 millimetri annui nell’Italia centrale e 300 nel Tavoliere di Foggia che è arido come l’isola di Lampedusa o l’entroterra della Tunisia. Le specie vegetali dominanti sono le graminacee di vari generi: la poa, il lino delle fate, l’orzo sorcino, l’avena selvatica, le composite, soprattutto camomilla, cardi, centauree e carciofi selvatici e le piante perenni con apparati radicali succulenti come iris, asfodeli e narcisi.

I principali complessi steppici italiani che coprono nel complesso poco più di duecentomila ettari sono così localizzati:

PUGLIA (Tavoliere di Foggia, Murge, Salento): 65.000 ettari pari al 32% del totale. Le maggiori estensioni si incontravano fino ad un recente passato nel Tavoliere di Foggia, come testimoniano i resoconti dell’imperatore Federico II che nel XIII secolo vi andava a caccia di gru, otarde, oche e galline prataiole con i suoi falchi addestrati. Ma oggi, dopo cinquant’anni di riforma agraria, di incentivi al dissodamento del terreno, alla coltura del grano e alla bonifica, della primitiva steppa pugliese è rimasto un frammento di qualche migliaio di ettari nel pianoro carsico sotto le rupi meridionali del Gargano, fra Foggia e Manfredonia. Spazi più vasti si incontrano nelle Murge di Bari, dove i pascoli fioriti di asfodeli ancora si allargano a dismisura fra Minervino Murge, Altamura e Spinazzola.

SARDEGNA (altipiani e piane della Campeda, Abbasanta, Nurra di Sassari, Ottana, Coghinas, alto campidano, Oristanese): 102.000 ettari pari al 50%.

LAZIO, TOSCANA, SICILIA (soprattutto Maremma tosco laziale, Alto Lazio e Sicilia meridionale): 38.000 ettari pari al 18% del totale.

Dal punto di vista della flora i prati aridi sono molto ricchi di piante erbacee, fra cui molte orchidee, dal punto di vista della fauna ospitano invertebrati e uccelli, fra cui la gallina prataiola, le albanelle minori, i falchi grillai, le allodole.

Pochi sono adeguatamente protetti, fatta eccezione per i prati aridi del parco nazionale dell’Alta Murgia, molti rientrano in aree SIC e in ZPS. 

UN ORTO BOTANICO

All’inizio della primavera, quando il sole non ha ancora trasformato la steppa in una brulla distesa di piante rinsecchite, si possono ammirare in pochi metri quadrati di un pascolo pugliese decine di specie di orchidee fra cui le forme endemiche come le ofridi di Siponto e del Gargano. E poi le grandi spighe delle barlie, le eleganti ofridi gialle a pelo del suolo, le serapidi a mazzi. E in mezzo a queste delicate piante ci sono iris dalle vistose fioritura viola e gialle, adonidi scarlatti, eliantemi ed asfodeli dorati: il tutto fra pietre, sassi, ciuffi di graminacee pungenti, che coprono a stento il suolo rossastro tipico delle zone carsiche. Molte piante hanno tuberi, bulbi e radici succulente per superare la lunghissima pausa estiva quando tutta la loro parte aerea, foglie e fusti, muore. Le fioriture sono molto precoci perché le piante approfittano dell’umidità apportata dalle piogge autunnali e invernali.

Ophris

In Puglia l’orchidea collinare dai fiori purpurei fiorisce in gennaio, seguita dalle barlie che hanno una spiga piena di fiori rosa alta fino a mezzo metro. In febbraio compaiono le piccole orchidee dai quattro punti. In aprile sbocciano le ofridi, dal fiore elaborato: vi sono le ofridi gialle alte pochi centimetri e le alte e snelle ofridi di Siponto dal labello bruno purpureo. Le specie più tardive sono le serapidi, dal fiore a forma di imbuto da cui si protende il labello rosso quasi fosse una lingua.

Fonte @naturaitalia.it

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